Resoconto dell’ Archimeeting a Pieve Santo Stefano di Martina Verna

Il lenzuolo scritto di Clelia Marchi

ARCHIMEETING 24 GIUGNO 2017 – Fondazione Archivio Diaristico Nazionale

 

Un luogo che non ti aspetti, Pieve Santo Stefano, comune di tremila abitanti incastonato in una piccola valle nella provincia di Arezzo, laddove il Tevere è ancora un fiumicello di sorgente e i confini di Toscana, Umbria, Romagna e Marche si incontrano a formare un crocevia.

A dispetto del toponimo “Pieve”, che porta il segno inequivocabile di una fondazione millenaria – e che suscita pertanto un certo tipo di aspettativa visiva nell’immaginario del visitatore (la zona è punteggiata di borghi medievali) – chi giunge a Pieve per la prima volta si trova di fronte uno scenario del tutto atipico. Si rimane piuttosto male, quando si scopre che il volto della cittadina fu irrimediabilmente sconvolto, anzi travolto, dalla Seconda Guerra Mondiale: la Linea Gotica si era, come è noto, assestata su quel tratto di Appennino e quando, con l’approssimarsi degli Alleati nell’agosto del 1944, l’esercito tedesco dovette accelerare la ritirata verso il nord, volle lasciarsi alle spalle un cumulo di macerie. Gli abitanti di Pieve furono dunque sfollati e l’antico borgo venne per la quasi totalità raso al suolo.

Gli enormi lutti e la perdita delle proprie case non scoraggiarono tuttavia la popolazione, che decise di non abbandonare il paese, sebbene distrutto. Le necessità del Dopoguerra e la ferrea determinazione di quanti vollero tornare diedero poi il via ad una frettolosa ricostruzione, di cui il moderno stile architettonico è chiara testimonianza. I pochissimi edifici risparmiati dalle mine (la vecchia chiesa, qua e là un archivolto, il cinquecentesco Palazzo comunale) sono inseriti in un paesaggio urbano che, sebbene ricalchi il tessuto viario antico, si compone per la maggior parte di (più o meno belli) moderni edifici in cemento. Il risultato di quest’operazione, avvenuta grosso modo negli anni Cinquanta, è un centro storico dall’aspetto assolutamente composito e originale il quale conferisce a Pieve un’atmosfera del tutto particolare e fuori dal tempo.

Questa breve premessa mi è parsa indispensabile per presentare l’attività della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale Onlus – che è oggi il cuore di Pieve Santo Stefano – e consente altresì di capire meglio quale importanza una struttura del genere abbia rivestito (e rivesta sempre più) non soltanto a livello nazionale, ma anche e soprattutto a livello di sviluppo locale, poiché in un certo senso è la città stessa a identificarsi con questa istituzione (e il sentimento è ricambiato). Oggi Pieve si forgia infatti, orgogliosamente, del titolo di “Città del Diario”: raccogliere e conservare le memorie altrui – affinché non si perdano nell’oblio – è divenuta una missione nella quale la città ha trovato uno slancio verso il futuro, una ragione d’essere. In un certo senso è come se la comunità intera, privata dalla Guerra della propria identità, ne avesse acquisita una del tutto nuova, grazie alle migliaia di identità delle quali è custode.

Fondato nel 1984 dal giornalista e viaggiatore Saverio Tutino, l’Archivio ospita oggi più di 6400 tra diari, memorie, corrispondenze e autobiografie di persone comuni, che liberamente scelgono di depositare le loro storie di vita qui per condividerle. Nel 1998 la Regione ha inserito la Fondazione nella tabella delle grandi istituzioni della Toscana e nel 1999 la Sovrintendenza Archivistica della Toscana ha conferito la notifica di archivio di notevole interesse storico.

Il gruppo ANAI Toscana ha avuto il piacere di trascorrere una bella mattinata nella sede operativa della Fondazione in compagnia della direttrice organizzativa Natalia Gangi. Dopo aver illustrato le attività dell’istituto e gli interessantissimi progetti che questo promuove, Natalia ha consentito di visionare alcuni pezzi originali dell’archivio, proponendo ai presenti un assaggio delle molte storie conservate a Pieve Santo Stefano. Si tratta di storie all’apparenza comuni, di persone comuni, ma è sufficiente leggere anche una sola pagina per rendersi conto che ciascuna storia è invece diversa da tutte le altre: è una storia straordinaria, unica e irripetibile, che merita di essere conservata, catalogata, e perché no, letta e talvolta pubblicata.

Nel pomeriggio il gruppo si è spostato nel vicino Palazzo Comunale, dove dal 2013 è stato allestito un percorso interattivo/virtuale che costituisce il Piccolo Museo del Diario.

Un’installazione nelle prime due sale introduce il visitatore al vasto mondo degli archivi: su un’alta parete illuminata si aprono tanti cassetti, su ognuno dei quali è un’etichetta con Cognome, Nome ed estremi cronologici del soggetto contenuto, come in un vero schedario. All’apertura del cassetto, una Storia viene visualizzata mediante un piccolo schermo, mentre una voce narrante legge un breve estratto del Diario. La terza e la quarta sala sono invece dedicate a due tra i pezzi più emblematici tra quelli conservati. Una macchina Olivetti proietta virtualmente su una vecchia scrivania le pagine fitte di scrittura del siciliano Vincenzo Rabito; selezionando alcune parole-chiave è possibile ascoltare piccoli stralci dell’autobiografia che egli, semi-analfabeta, dattiloscrisse alla metà degli anni Settanta, senza interlinea né margini, separando tra loro le parole con un enigmatico punto e virgola. Il percorso si conclude infine nella cosiddetta “sala del lenzuolo”, così chiamata perché qui si trova esposto, appunto, il lenzuolo matrimoniale sul quale Clelia Marchi, contadina, decise negli anni Ottanta di raccontare tutta la propria vita senza dire “neanche una bugia”.

La quantità di documentazione e la varietà di supporti scrittori presenti nell’archivio (utilizzati dagli autori deliberatamente o per necessità cogenti) sono prova tangibile di una vera e propria “urgenza” di scrivere e in particolare dello “scrivere di sé”, particolarmente diffusa a partire dal XIX secolo e via via sviluppatasi nel corso del Novecento con il progredire dell’alfabetizzazione di massa. La scrittura privata permette di dare voce all’esigenza, tutta umana, di lasciare ai posteri una traccia della propria esistenza e permette altresì di dare libero sfogo alla soggettività: ricordi personali e familiari, riflessioni, opinioni sulla vita e sul mondo, ma anche desideri, paure, frustrazioni – insomma emozioni e memorie vive – sono gli elementi che abitano i Diari di Pieve. Aspetto non secondario da rilevare è inoltre come questo tipo di scrittura possa diventare una fonte storica di grande valore, ogni qualvolta le vicende personali di un singolo uomo si intrecciano e si intersecano con gli Eventi del proprio tempo. Ciascun personaggio “comune” contribuisce così a scrivere una Storia più grande fatta di tante piccole voci, racchiuse nei diari, nelle lettere, nei biglietti, e nello stesso tempo dischiude a chi vi si accosti la straordinaria complessità dell’animo umano.

Credo di poter parlare a nome di tutti quanti hanno partecipato all’incontro di Archimeeting del 24 giugno all’Archivio Diaristico Nazionale, affermando di aver vissuto un’esperienza molto positiva. Personalmente la visita a questo luogo è stata anche occasione per alcuni spunti di riflessione affatto banali, relativi soprattutto al futuro della memoria – e della memoria individuale segnatamente. Non mi riferisco al problema in termini di conservazione, quanto in termini di produzione volontaria – e consapevole – della memoria privata.

L’accesso alla scrittura, così come all’Informazione, è ormai talmente facile da essere divenuto scontato, ed esistono altri mezzi per esprimere la propria personalità. E allora è ancora utile oggigiorno, scrivere un Diario?

Conosco diverse persone che appuntano i propri pensieri su un quaderno apposito, o più spesso su un file Word, ma ho l’impressione che questa abitudine stia cadendo in disuso. Del resto tutto viene “salvato” in automatico sul PC/cellulare, compresi quelli che un giorno saranno destinati a divenire ricordi (le fotografie, i messaggi, ma si pensi agli auguri di compleanno o all’itinerario di un viaggio), e che dunque non hanno più il bisogno di essere ri-elaborati in una nuova scrittura; esistono poi le bacheche virtuali per esprimere opinioni in merito/a sproposito su qualsiasi argomento.

Il rischio di una perdita della memoria non ha a che fare soltanto con la longevità dei supporti informatici, ma è proporzionale (anche) allo sforzo che di volta in volta è necessario compiere per creare un “bagaglio” di ricordi. Quanti si sforzano di ricordare il compleanno di un amico da quando esiste Facebook che lo notifica? Quanti imparano a mente i numeri di telefono da quando esiste il cellulare? Allo stesso modo potrebbe apparire superfluo annotare quotidianamente su un Diario la propria vita.

Insieme alle tecnologie sta mutando velocemente la percezione che ciascuno ha di sé e dunque anche le modalità che l’individuo ha di raccontare sé stesso cambiano. Ciascuno è libero di utilizzare il metodo che crede migliore, l’importante, credo, sia riuscire sempre a trovare qualche “riga” di tempo per sé stessi.

Io per esempio, dopo la visita a Pieve ho rispolverato la mia personale “scatola” e ho dedicato un paio d’ore a leggere i diari di quando ero piccola. È stato divertente notare che mentre tanti momenti e situazioni per me erano svaniti per sempre, la me-bambina li aveva invece con lungimiranza fissati su un foglio di carta. Così, è venuto fuori che il 13 dicembre del 1993 avevo “molta tos[s]e” e dovevo “prendere lo scirop[p]o” ma che malgrado questo ero contenta perché avevo ricevuto quel giorno un regalo, un quaderno di “Topolino” che si poteva chiudere con un lucchetto. Ignoravo ancora la presenza delle doppie consonanti nell’italiano: avevo cinque anni e mezzo e quel giorno iniziai a riempire il mio primo Diario.

Oggi riprendo da dove l’ho lasciato.